#47 Il cinema deve morire
L'unico modo che abbiamo per salvare il cinema, e la cultura in generale, sempre che meritino di essere salvati, è abolire i finanziamenti pubblici. "Non credo in niente" di Alessandro Marzullo.
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#47
Il bollettino settimanale di Gog Edizioni, che ogni lunedì (ehm) vi racconta orrori e meraviglie del nostro panorama culturale. Con l'occasione, vi aggiorniamo sulle nostre attività dal sottosuolo. Siamo usciti dal mondo, è tempo di guerriglia.
L'arte e la creatività nascono dalla scarsità di mezzi, il comfort non ha mai generato nulla di interessante. Un caso studio che conferma questa regola: il film "Non credo in niente" di Alessandro Marzullo
⚠️ La settimana del Nemico: Falliti di successo con Ray Banhoff, Rai come la Siberia, Eterobasiche fan del Patriarcato, Mark Fisher e il vittimismo | Vi parliamo dell'esordio alla regia di Alessandro Marzullo, Non credo in niente ⚠️
La rivista di delegittimazione culturale Il Nemico, dopo una settimana di rodaggio, sta finalmente ingranando. Che attacco penoso per una newsletter, che attacco idraulico. Oggi non sappiamo scrivere. Lunedì è il peggiore dei giorni per la scrittura. Le parole ci escono meccanicamente come da un distributore automatico di merendine, in cui tra l’altro ne sono rimaste pochissime, sempre le stesse. Perciò non ci dilungheremo oltre. Vi segnaliamo solo un paio di cose. Abbiamo aperto la settimana scorsa con una nonrecensione di Profeta all’ultimo libro di Raybanhoff, Vita da autodidatta, romanzo su una generazione, quella dei 30/40, che non ha prodotto niente di significativo, ma che può e deve scoprire nel fallimento il proprio riscatto. Il passaggio più bello dell’articolo: «Dio o Cthulhu protegga i giocatori di biliardino, il ragù la domenica, la fidanzata per chi ce l’ha, le partite di calcetto, i baretti anonimi, la curva Sud, perché siamo teneri, siamo romantici, che scenda l’oblio sull’Occidente, perché diciamoci la verità, la tv è troppo bella, il cellulare è troppo fico, il gesto infinito, la distrazione eterna, incantati come in un monologo delirante di David Foster Wallace». Si continua poi con un’analisi della guerra civile che sta dividendo la Rai, questa «Siberia della mente» in cui non è mai esistita libertà o spirito critico, e dove solo l’affidabilità politica conta davvero. A seguire, e in pieno stile Nemico, Sara Speranza ha letto per noi (scusaci Sara, sic) la prima e speriamo ultima fatica delle Eterobasiche, Romanzo di un maschio, pubblicato da Einaudi, che ormai va a pesca di content creator su Instagram perché nelle Lettere sia i content sia i creator scarseggiano. Il risultato è un libro ibrido, scritto sotto l’influenza di editor boomerissimi, che hanno tentato di dare forma letteraria a una roba che chiaramente è pensata per stare dentro un reel, sia per tempi che per profondità di analisi. Centocinquanta pagine di uno stereotipo talmente stereotipato di maschio etero cis bianco, che alla fine non ci si riconosce nessuno. Il patriarcato è salvo anche stavolta. Ieri invece un pezzo stupendo di Mark Fisher, pubblicato nel 2013: Fuori dal Castello dei Vampiri. Lettura fondamentale, in cui Fisher teorizza questo dispositivo vampiresco utilizzato da una certa sinistra per generare delle vittime del sistema e poi detenere il monopolio della loro sofferenza.
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NON CREDERE IN NIENTE
Giorni fa siamo stati al cinema, incuriositi dalla mail di una piccolissima casa di produzione romana (la Flickmates) che ci invitava a vedere la sua ultima uscita: Non credo in niente, esordio alla regia di Alessandro Marzullo. Non sapevamo di questo film, né del suo autore, né delle sue peripezie. Guardiamo il trailer e subito ci sembra l’ennesima prova di qualche fighetto romano uscito da una scuola di cinema, dalla fotografia leziosa, la vocazione “indipendente” (attributo che si usa per fare l’elemosina), insomma l’ennesima velleità di un raccomandato qualsiasi. Il cognome Marzullo aumenta i sospetti. La trama quasi li conferma. Storia dei soliti giovani sulla soglia dei trent’anni alle prese con i loro insuccessi e le loro frustrazioni. Il tutto ambientato a Roma, città spremuta centimetro per centimetro dai videomaker dei trapper, dai cantautori indie, dagli scrittori di gialli, dagli sceneggiatori Rai, dalle eterobasiche e dagli street artist. C’era bisogno di farci un film, ancora? Ritrarre una generazione, di nuovo? Non è più facile passare una sera tra Pigneto e San Calisto con una Go-Pro attaccata in fronte? Ci aspetta un’ora e mezza di auto-commiserazione però impacchettata benissimo? No vi prego, lasciateci in pace, lasciateci fallire ma almeno guardiamoci l’ultimo film della Marvel. Che il nostro fallimento non sia materia di compiacimento di qualcuno, di prestigio di qualcun altro, premio da mettere in cameretta, falliamo senza produrre alcun tipo di valore, economico o simbolico, senza che sopra si possa in qualche modo edificare un discorso «morale». Questi tutti i pregiudizi con cui entriamo in sala. Ma le cose migliorano. Il ragazzo seduto accanto a noi odora di marijuana. Al mio amico a destra è partita l’ascella. C’è un po’ di vita qui dentro, e soprattutto sullo schermo non compare il logo della Regione Lazio e di altri quindici «player» istituzionali che patrocinano e finanziano l’opera. È requisito necessario, quest’assenza, per (pre)giudicare un film. Finché non inizia la proiezione (il film è girato interamente in pellicola 35mm, scopriamo). Tutto si frantuma, a quel punto, anzi tutto si frammenta, perché il lungometraggio, che inizia citando un passo di Bauman, è un insieme di frammenti, così come sono frammentate le nostre vite postmoderne. Ma teniamoci lontano da quest’ultimo concetto che è servito da lasciapassare per le peggiori ecatombe ideologiche, e subito la mente si sgonfia, fotogrammi si riversano nella nostra indebolita coscienza, quattro personaggi danzano sullo sfondo di una Roma irriconoscibile, notturna, nottambula, senza punti di riferimento. Non c’è la borgata, non c’è il centro, non c’è il Pigneto, non c’è la dicotomia insopportabile Roma Nord / Roma Sud che ha tolto dalla disoccupazione decine di comici in assenza di buone idee, non c’è la Periferia, set prediletto di chi sfrutta le miserie altrui, iperluogo dell’inautentico: riconosciamo a malapena un cavalcavia, un meccanico, una casa da studenti fuori corso, un aereo, un paninaro come una divinità delfica, immobile, centro di gravità permanente attorno a cui tutto orbita e che potrebbe collocarsi ovunque nella città: siamo nella notte, senza coordinate. Siamo nella notte senza nome. Neanche i protagonisti, ventenni ancora per poco, tutti con aspirazioni più o meno umanistiche e non corrisposte, hanno un nome. Non si chiamano, perché nessuno li chiama, confermerà poi il regista. Questa cosa la troviamo bellissima. Oggi ci tagghiamo, ci diamo nickname, troviamo i nomi più assurdi per il nostro indirizzo di posta elettronica, e poi magari nessuno ci chiama per nome. E di fronte a questa disperazione, che poi è la solita questione della crisi di identità – chi sono? Che ci faccio qui? Da dove vengo? Che futuro mi aspetta? Cosa mi cucino stasera? – questi personaggi hanno almeno il buon gusto di non infilarsi in qualche identità predefinita, a buon mercato, quella che avrebbe garantito al film il plauso delle minoranze rumorose che dettano i canoni del momento. Quindi niente impegno civile per scopare all’università, niente vittimismo per definirsi in negativo, niente giravolte sessuali, niente introspezione psicologica. Siamo di fronte alla maggioranza silenziosa, innominata, senza partito, senza neanche le droghe a fare da contorno, ragazzi e ragazze che vorrebbero solo un posto nel mondo in overbooking. Ma già stiamo parlando troppo, già siamo andati oltre un film che probabilmente non ha intenzione di dire tutte queste cose, perché in sé è molto di più, molto di meno di queste inutili parole che sbrodoliamo per trovare il capo alla coda di un corpo sociale decapitato. È una notte ininterrotta, sogno dentro un sogno di una generazione in cui ci riconosciamo un po’ tutti, soprattutto perché ha il merito di non tenerci in ostaggio con il ricatto della trama: il plot è inesistente, ridotto a un carosello di scene connesse da fatti per lo più irrilevanti. Quindi il film siamo noi, solo noi e il turbinio di associazioni che produce, ognuna uguale e diversa, nelle nostre teste, un film che lascia spazio a migliaia di altri film, come fare uno zapping nella propria memoria. Insomma mentre lo guardiamo possiamo pensare ai cazzi nostri, ogni scena, ogni frase è una chiave che possiamo usare per aprire la porta di un ricordo, di un momento, di una delusione – intimi, ma l’intimità è la sola dimensione veramente collettiva che abbia un senso. Finalmente un regista che si eclissa, si toglie di mezzo e ci lascia guardare lo schermo divenuto specchio in santa pace. Finché tutto si chiude, con un ultimo ballo. Non c’è risoluzione, perché non c’è soluzione. Ma vaglielo a dire che questa mancanza è molto più convincente di qualsiasi finale impegnato, salvifico o redentore, e che la rivolta nasce da anime impollinate e non istruite, nasce dalle semine e non dalle potature, dalla rabbia più che dalla speranza. E questo film fa un po’ incazzare – già sembra un miracolo in una società che cerca l’estinzione di qualsiasi focolaio di rabbia – perché ci toglie persino il nome, ci espropria dell’ultimo avanzo d’identità che la generazione precedente ci aveva consegnato. E ci fa sentire soli, finalmente soli, lontani anni luce dalla narrazione sui giovani scritta da vecchi ma che i giovani si raccontano per comodità: non arriverà la promozione sociale che attendiamo messianicamente, non arriveranno i grandi a salvarci il culo, non il PNRR, non i fondi europei, non ci basterà mettere casa di nonna su Airbnb. Bisogna smetterla di credere in questo futuro impagliato con paure e speranze controllate, certificate, che qualche altra generazione ha deciso che dobbiamo provare. Bisogna non credere in niente, neanche nei paninari.
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Tutto questo per dire un’altra cosa: il lungometraggio Non credo in niente è stato prodotto con 30mila euro di budget. Senza fondi, senza patrocini. In questo caso è davvero un film indipendente, malgrado questo termine, come dicevamo prima, serve spesso ad attirare l’attenzione di quelle istituzioni che finiscono proprio per minacciare l’indipendenza di cui ci si vanta. Ad ogni modo la soluzione alla crisi in cui versa tutta la nostra industria culturale (dal cinema all’editoria) per il fatto stesso di essere diventata un’industria e quindi di aver perso la propria spontaneità, di essere sottoposta, come gli altri settori statali o aziendali, a una preventiva pianificazione e organizzazione, quindi a una gestione verticistica della priorità, dei temi, delle persone che vi prendono parte, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Lo Stato, e assieme a lui qualsiasi altro ente parastatale, deve dimettersi dalla Cultura. Al massimo si potranno detassare le attività culturali, sicuramente non vanno finanziate: perché il finanziamento crea clientelismi e amichettismi vari, ma soprattutto anestetizza le capacità creative degli artisti e degli intellettuali, che da che mondo è mondo si temprano solo in condizioni di stento e di mancanza di mezzi. L’agio non crea belle arti. Il comfort uccide il genio. Sono le basi, sono banalità. Con i budget stellari che vengono stanziati per film che al botteghino incassano una miseria, si produrranno soltanto pellicole mediocri, intimiste, in cui il regista e la produzione possono permettersi il lusso di non rendere conto a nessuno, se non a quell’esigua minoranza di persone che gestisce i principali organi critici (che non criticano più nulla). Si attiva così la macchina delle marchette, e l’insuccesso economico viene giustificato dando la colpa al pubblico ignorante che non va più al cinema. Il Ministro dell’orrore Gennaro Sangiuliano, forse inconsapevolmente, ha fatto cosa buona e giusta tagliando i fondi al cinema. Purtroppo il taglio però è esiguo, solo 14 milioni sui 750 destinata al settore. Gennaro puoi fare di più, non temere, tanto l’indice di gradimento del tuo Ministero è già ai minimi storici, fatti odiare come si deve, rimani impresso nella memoria di questo Paese almeno con un gesto radicale, taglia tutti i fondi, lasciamo gli intellettuali e i registi a spasso, che tornino nelle province, che tornino a ripopolare l’Appennino, le vecchie case di famiglia, le periferie non gentrificate delle città, che tornino nelle fabbriche, nelle officine. Che si facciano un giro in bicicletta come faceva Zavattini. Un giorno li rivedremo bussare alle porte delle case di produzione, avranno idee insuperabili, sceneggiature meravigliose, facce scavate e poesie vertiginose nei cassetti.
NON FARE IL CAFONE, NON PRENOTARE IN QUEL RISTORANTINO A FREGENE, NON FARE LA CODA SULL'AURELIA BESTEMMIANDO MENTRE ASCOLTI LA REPLICA DELLA ZANZARA. QUESTA DOMENICA 26 MAGGIO RESTA A ROMA. VIENI A JUNKOPIA. ALLE ORE 18.00
PARLIAMO DI MARIO APPIGNANI E DI QUANTO CI SIA UN DISPERATO BISOGNO DI DISTURBATORI, AGITATORI, IMPOSTORI
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8 libri l'anno a scatola chiusa
non vi riveleremo titoli, autori, copertine
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Tu ti fidi di Gog?
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VIOLENTE SERE
Per un po' di tempo nella nostra newsletter troverete sempre una poesia di Ettore Amelio. Un giorno le pubblicheremo nella raccolta "Violente sere" proprio come non avrebbe voluto. Ci maledirà per questo.
L’oro dei giorni
È come finito.
I miei occhi di vetro
Non vedono più.
Sulle mani i guanti
Sfiorano ombre
Di ombre
E l’odore dei passi
È imbottigliato
nelle tue scapole.
Cosa è successo babush?
Siamo giovani eppure
I sensi si ovattano
I colori si offuscano
Non distinguo una rosa
Da un tulipano
Il verde dal viola
Un secondo da un’ora.
E non è della morte
Che ho paura
Ma di come rido
Del fatto che ho
lo zenzero in frigo
Ho paura
Di tutte le cose che dico
Che parlo come tuo padre
ho la metà dei suoi soldi
Magari -
La metà dei suoi sogni.
Ho paura di essere già
Ciò che sarò tra trent’anni,
Di non riuscire più
a inginocchiarmi
Al muretto di pietra
Di un pomeriggio qualsiasi
Quando il sole si spegne
Ma dentro hai un’aurora
Perenne
Quella di chi
è disposto a fallire
A dimenticarsi
sempre le chiavi,
e tutto questo futuro
con cui
ci ricattano i vecchi.
Ettore Amelio, Dimenticarsi
«L’anima colta è quella in cui lo strepito dei vivi
non soffoca la musica dei morti».
Nicolás Gómez Dávila, Notas
Preferirei di no è una newsletter gratuita realizzata settimanalmente dalla redazione di Gog Edizioni. Quest'anno abbiamo stracciato il contratto con il distributore-sanguisuga, siamo fuori da Amazon e dalle librerie di catena in catene e pubblichiamo libri senza fretta, senza eccessi, senza alimentare la macchina ingorda dell'editoria. Viviamo in clandestinità, senza dover rendere conto a nessuno se non ai nostri lettori, ma siamo pronti a deludere anche loro. A guidarci un solo monito: dimorare in ogni idea, per un istante. Ci trovate sul nostro sito o nelle piccole librerie con cui collaboriamo.
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